“Il mio data center? È dovunque ho bisogno di mettere capacità di calcolo per abilitare il mio business”. Sono parole di un CIO raccolte da David Cappuccio, managing vice president di Gartner, che lasciano intravedere la metamorfosi del data center sia dal punto di vista strutturale sia nella percezione del management. Dimensioni quali “fisicità” e “prossimità” sembrano ormai poco importanti, poiché il posizionamento del carico di lavoro si basa sempre di più su esigenze aziendali e sempre meno sull’ubicazione più o meno contigua del data center agli uffici o agli stabilimenti. Ecco perché, secondo Gartner, entro il 2025 l’80% delle imprese avrà chiuso il proprio data center tradizionale. Ad accelerare questo processo un contributo fondamentale arriva dalla diffusione costante, a cui si è assistito in questi anni, del Cloud computing e dei modelli a esso correlati.
Da prodotto in-house a commodity grazie al Cloud
È bene ricordare che, prima dell’avvento del Cloud, generalmente la tipologia di data center utilizzata dalle aziende contemplava una sala macchine in-house che ospitava server, archivio, gruppi di continuità e tutte le apparecchiature necessarie a governare i sistemi informativi. Per garantire il suo funzionamento, doveva contare anche su appositi impianti di alimentazione e raffreddamento, oltre che su dispositivi di sicurezza che ne tutelassero l’integrità. Per contenere i costi capex associati, l’alternativa era quella della colocation, l’affitto di spazi per la sistemazione dei server al di fuori del perimetro aziendale. Questa variante, tuttavia, non risolveva un problema, quello dei costi, che invece con la nuvola ha trovato una risposta più che soddisfacente nel paradigma del pay-per-use che sancisce uno stretto legame fra utilizzo delle risorse IT e costo reale. Cosa che con il data center tradizionale non era possibile modulare, visto che i costi di hardware, software e di energia non variano, o variano poco, in funzione del carico di lavoro.
Uno dei principali cambiamenti che il Cloud ha introdotto nei data center, quindi, è la loro progressiva trasformazione in una commodity, con la conseguente allocazione della spesa relativa nell’alveo dei servizi e non più fra le voci TCO (Total Cost of Ownership) relative ad acquisto, installazione, gestione e manutenzione della dotazione informatica.
La terziarizzazione che fa bene ai data center
La trasformazione dei data center in commodity è anche all’origine del continuo miglioramento che sta investendo il Cloud dal lato dell’offerta. I C-level, infatti, a prescindere dalla loro conoscenza tecnologica, sono sempre più focalizzati sul valore derivante dal portafoglio di applicazioni connesso agli obiettivi aziendali. La comparazione fra sistemi on-premise e off-premise avviene, cioè, più che sull’ammontare dei costi e sul risparmio associato, sulla loro maggiore o minore capacità di abilitare il business. È questo il terreno su cui il Cloud risulta vincente, poiché assicura efficienza, scalabilità, sicurezza, bassa latenza, oltre a liberare il personale IT da incombenze quotidiane di tipo gestionale e manutentivo. Ed è lo stesso terreno su cui giocano la loro competizione i Cloud Provider, consapevoli del fatto che, a parità di modello, devono garantire prestazioni superiori rispetto a quelli della concorrenza. Basti pensare, ad esempio, alle certificazioni dei data center. Oggi la loro classificazione segue lo standard TIA-942 con quattro livelli, detti TIER, suddivisi in base alla minore o maggiore garanzia di continuità operativa: dal primo, in cui l’interruzione di servizio potrebbe avvenire per quasi 30 ore nell’arco di un anno, al quarto, con una soglia di “fermo macchina” che non supera le due ore annue. Questo innalzamento della qualità dei data center si deve proprio al Cloud, perché la terziarizzazione di funzioni un tempo gestite internamente è stata la molla che ha spinto i Provider e gli outsourcer a migliorare incessantemente la propria offerta per rispondere sempre meglio ai fabbisogni delle imprese.