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Con la prospettiva di un futuro sempre meno condizionato dall’andamento ciclico della pandemia, è necessario interrogarsi su quello che sarà il rapporto tra PA e smart working.
Anche le Pubbliche Amministrazioni hanno realizzato i benefici del lavoro agile, dapprima implementato come misura emergenziale e ora come strumento di modernizzazione del paradigma lavorativo. Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, il picco della pandemia ha portato 1,85 milioni di dipendenti pubblici a lavorare da remoto, per poi passare agli 860mila del 2021 come conseguenza dell’allentamento della morsa pandemica.
La relazione tra pubblica amministrazione e smart working è un tema di forte attualità a partire dai primi mesi dell’emergenza pandemica. Inizialmente, il DPCM dell’8 marzo 2020 stabilì che il lavoro agile fosse la modalità ordinaria di svolgimento del lavoro. Successivamente, l’argomento tornò diverse volte sotto i riflettori: in occasione del Decreto Cura Italia (DL 18/2020), del Decreto Rilancio (DL 34/2020) e del Decreto Riaperture (DL 56/2021), che ha eliminato il vincolo (previsto dalla normativa precedente) che imponeva alle PA una quota di lavoro da remoto almeno pari al 50% dei dipendenti.
Gli ultimi interventi meritevoli di menzione sono stati il DPCM del 23 settembre 2021, che ha di fatto sancito il ritorno del lavoro in presenza riducendo al 15% la quota massima di smart worker per ogni PA, e la circolare del gennaio 2022 che, pur ribadendo il principio della presenza come modalità ordinaria di lavoro, ha inteso promuovere un certo grado di flessibilità. In questo momento, il lavoro agile è sottoposto ad accordi individuali soggetti a vincoli definiti dalla normativa.
Nonostante il ritorno in presenza, non si può dire che l’era smart non abbia condizionato e stia condizionando le dinamiche del lavoro nel settore pubblico. Tuttavia, quest’ultimo è soggetto ad alcune sfide specifiche che – in assenza di evidenti cause di disruption – possono rallentare il percorso di adozione. Eccone una breve panoramica:
A tutto ciò si sommano la tradizionale resistenza al cambiamento, il timore che il lavoro da remoto peggiori le performance complessive e l’esigenza di rivedere gli spazi in funzione delle nuove dinamiche lavorative.
Quanto meno nel prossimo futuro, la relazione tra PA e smart working sarà dipendente dall’andamento del virus. Occorre quindi intendersi, per prima cosa, sul significato di ‘periodo post-pandemico’: una visione benigna parla di trasformazione endemica del covid, che lo farebbe riproporre ciclicamente ma senza quella forza drammatica che ha contraddistinto i primi periodi.
Il tema è inevitabilmente dominato dall’incertezza. Il forte legame con l’andamento pandemico e una normativa tendente al lavoro in presenza fanno sì che 1 PA su 4 non sappia se e come il lavoro agile verrà adottato o mantenuto al termine della pandemia. Tutto questo, nonostante l’82% delle PA abbia registrato un miglior bilanciamento tra vita privata e professionale, il 27% un aumento di efficienza e il 30% di efficacia.
Con tutte le cautele del caso, il processo di adeguamento alle dinamiche di lavoro smart e (soprattutto) ibride dovrebbe proseguire, ma con una certa gradualità a causa di tutte le sfide di cui sopra. L’Osservatorio Smart Working fa una previsione in merito: nel prossimo futuro, la relazione tra PA e smart working dovrebbe riguardare circa 680mila persone e il 62% degli enti pubblici, laddove prevarranno le iniziative strutturate e le persone lavoreranno mediamente 2 giorni alla settimana da remoto. Se tali stime verranno confermate, si tratterà di una riduzione rispetto al 2021 (860mila), ma non tale da abbattere il percorso di modernizzazione già intrapreso e che, ci auguriamo, sarà il punto di partenza per ulteriori evoluzioni future.