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3 leve per migliorare il welfare aziendale

Scritto da Impresoft 4ward | Oct 8, 2017 10:00:00 PM

Negli anni scorsi, quando si parlava di welfare, ci si riferiva soprattutto al sistema pubblico di assistenza, cioè al cosiddetto welfare state. Non che il concetto di “benessere” promosso dall’azienda a beneficio dei dipendenti fosse del tutto sconosciuto. Si pensi alla previdenza sanitaria integrativa prevista già nel D.lgs. 502 del 1992 o, ancora prima, ai vari CRAL (Circolo Ricreativo Aziendale per i Lavoratori) nati dall’accordo tra datore di lavoro e lavoratore per ottenere spazi condivisi e agevolazioni per il tempo libero.

Ma è soprattutto con le due ultime leggi di stabilità che in Italia si è cercato di dare un quadro giuridico coerente al welfare aziendale. Le due finanziarie, infatti, hanno previsto incentivi per l’offerta di beni e servizi a favore dei dipendenti in varie aree, tra cui l’educazione dei figli, l’assistenza a familiari anziani o non autosufficienti, mutui e finanziamenti, fondi previdenziali, attività sociali e ricreative. Ma come fa un’impresa a scegliere nel panel del welfare aziendale così da migliorare la produttività dei collaboratori e trattenere i talenti al suo interno?

 

1. CONOSCERE I BISOGNI DEI COLLABORATORI

Qualsiasi azione di introduzione ex novo o di miglioramento del welfare aziendale deve partire dalla situazione reale. Il vantaggio per l’azienda è la defiscalizzazione dei servizi di welfare proposti, ma per capire quali scegliere è opportuno che vengano svolte delle survey interne o dei focus group che consentano di circoscrivere i desiderata dei lavoratori. Esistono delle indagini, come ad esempio il Quarto Rapporto Welfare e Primo Rapporto Wellbeing di OD&M Consulting che danno uno spaccato dei trend con una classifica dei servizi maggiormente apprezzati dai collaboratori. Ma, avendo presente il quadro generale, l’azienda deve giungere al dettaglio del suo contesto specifico.

 

2. DIVERSIFICARE L’OFFERTA DI WELFARE AZIENDALE

Non tutti i dipendenti sono uguali. Di conseguenza, non tutti i servizi di welfare sono adatti alla generalità dei lavoratori. Fatte salve alcune costanti, come le assicurazioni sanitarie integrative o i buoni pasto che possono trovare un apprezzamento diffuso, ciascuno si orienterà su ciò che meglio risponde ai suoi bisogni personali o familiari. Chi ha figli piccoli apprezzerà, ad esempio, la possibilità di usufruire di un asilo nido aziendale o di un voucher che gli permetta di abbatterne il costo; chi ha genitori disabili, l’opportunità di avere del tempo da dedicare loro; chi ama tenersi in forma, gli spazi aziendali destinati allo scopo o le convenzioni con centri fitness.

 

3. DAL WELFARE AL WELLBEING

L’importante è che il concetto di welfare, insieme alla sua residua accezione paternalistica, muti verso quello attuale di wellbeing: dal “benessere” al “sentirsi bene”. In tal senso, l’attenzione dell’azienda affinché il suo collaboratore “si senta bene” non può prescindere dalla trama relazionale e dalla vita che la persona è costretta a condurre in funzione dei suoi doveri professionali. Se, ad esempio, raggiungere l’ufficio è fonte di stress quotidiano, nulla vieta l’adozione di una tipologia alternativa di rapporto contrattuale, il cosiddetto smart working o lavoro agile oggi previsto fra l’altro dal legislatore italiano. Non si tratta, in questo caso, di una proposta riconducibile alle politiche di welfare aziendale, ma certamente di una modalità che, nel realizzare il wellbeing del lavoratore, otterrebbe un sicuro beneficio in termini motivazionali.